«Dalla Danimarca con amore» (Fulvio Stefano Lo Presti,
Bellininews.it, maggio 2020)
Dalla Danimarca con amore per il nostro melodramma primottocentesco dimenticato è giunto lo stuzzicante volume di Thomas Milholt, Le Opere dimenticate del Melodramma italiano (1800-1850). Un capitolo di Storia della Musica da riscrivere, Giorgio Pozzi editore, Ravenna 2016 (nell’elegante traduzione di Paola Polito), con l’ ambizione di far «luce su un tesoro di opere italiane sconosciute che forse meriterebbero di essere riscoperte e rappresentate.»
Sono già trascorsi quattro anni dalla pubblicazione, due anni dopo la danese, ma il confinamento imposto negli ultimi mesi alla cultura anche editoriale, con la desertificazione repentina di spettacoli ed eventi vari nonché delle librerie, ridimensiona i nostri ritmi come le nostre abitudini. Si può dunque presentare quale novità un libro “vecchio”, tanto più in quest’anno in cui ricorre il centocinquantenario della morte di Saverio Mercadante (1795-1870), al quale il musicologo danese dedica un’estesa attenzione. Già Mercadante, che i teatri italiani da lunga pezza ignorano. Nell’800 invece le sue opere andavano in scena ovunque.
Poiché siamo a Catania, vale la pena di ricordare che sull’elegante facciata tardottocentesca del nostro Teatro Massimo Bellini il medaglione con il busto dell’Altamurano fa, assieme a quelli di altri colleghi, bella quanto inutile mostra di sé (ché, eccettuata la Sinfonia omaggio a Bellini, eseguita nella serata inaugurale del 31 maggio 1890, musiche di Mercadante il pubblico del Teatro Bellini non ne ha mai ascoltate).
Imponente la bibliografia consultata da Milholt - italiana e d’oltralpe, che naturalmente tiene conto anche di qualificati contributi danesi – e abbraccia in maniera sinottica l’avvento dell’Ottocento dal punto di vista storico, ideologico, politico, letterario, musicale e del gusto.
Il tallone d’Achille del pur ragguardevole volume mi sembra quell’ingombrante presenza del calabrese Francesco Florimo (1800-1888), bibliotecario di San Pietro a Majella ed ex condiscepolo dell’amato e presto assai compianto Vincenzo Bellini. Florimo, confidente privilegiato dell’altrettanto fraterno ex condiscepolo Mercadante, spese i suoi buoni uffici per ottenere a quest’ultimo la direzione del Conservatorio napoletano, sventando il “rischio” che diventasse direttore Donizetti. Il quale lasciò Napoli assai amareggiato, ma alla vigilia dell’apogeo della carriera, quel quinquennio conclusivo di gloria e fama internazionali folgoranti, che difficilmente gli sarebbero spettati se fosse rimasto a Napoli.
Florimo, a quanto pare, le care amicizie intime le preferiva però a distanza: ci sarebbe da chiedersi infatti se una convivenza trentennale con Bellini, come già con Mercadante al Conservatorio, avrebbe mantenuta intatta la corrispondenza d’amorosi sensi con il Catanese.
Al tronfio bibliotecario si è attribuita un’eccessiva importanza, tanto più che i suoi errori e le sue affabulazioni sono stati purtroppo presi per oro colato o quasi da tanti posteri. Pasticcione e inaccurato nel tramandare la storia dei conservatori napoletani, con valutazioni talora discutibili su questo o su quello, nonché inventore immaginifico di pie leggende postume sui rapporti tra Bellini e Donizetti (si veda Bellini. Memorie e Lettere, Firenze 1882), Florimo si comportò nei confronti di Mercadante da autentico voltagabbana dopo la morte di quest’ultimo, che da vivo aveva incensato. Ha visto nel giusto, ne sono convinto, Matteo Summa in Bravo Mercadante. Le ragioni di un genio (Fasano (BR) 1995), senza però voler esplorare i retroscena della «pugnalata alle spalle».
Quasi tutto un secolo vissuto quasi tutto a Napoli all’ombra del “suo” Conservatorio, farebbero di Florimo un testimone privilegiato degli avvicendamenti epocali della civiltà musicale italica, se non fosse per la prevalente inaffidabilità di quella testimonianza. Atteggiandosi di volta in volta a censore dell’estetica del melodramma, ha creduto captarne l’evoluzione del gusto e del costume, scartando e riassemblando i valori e le gerarchie. “Esemplare” il suo declassamento drastico (scevro di personali rancori?) degli Orazi e Curiazi di Mercadante (1846) dopo la scomparsa del suo autore. Forse la più fulgida gemma del lascito mercadantiano, a cui hanno reso giustizia prima la superba registrazione in CD della londinese Opera Rara (1993) (Opera Rara l’aveva già riscoperta nel 1975 in forma oratoriale in tre concerti dati in Inghilterra) e l’ammirevole rappresentazione in forma scenica a Saint Paul Minnesota (USA) nel 2006. Un’opera vitale che racchiude dramma, passioni, pathos, coinvolgenti confronti e scontri vibranti fino al tragico, lancinante epilogo, in cui l’ispirazione musicale di un grande maestro nel pieno delle capacità creative trascina senza sosta lo spettatore.
Anche senza i “ripensamenti” di Florimo dopo la morte dell’Altamurano, antichi e più recenti pregiudizi, talora rivestiti da flagranti falsità, hanno pesantemente offuscato fino ai nostri giorni la memoria e la fama di Mercadante. Illuminante in tal senso quanto si legge in Mercadante and Verdi di Tom Kaufman (Oxford 1997).
A Milholt si devono interessanti considerazioni suggestive, col supporto di autori recenti e del passato, sul prevalere (ineludibile?) nelle varie fasi di un genio supremo, prima Rossini, poi Donizetti, quindi Verdi e infine Puccini, contornati da altri necessariamente secondi, laddove da costoro i grandi hanno preso in prestito e così pure quegli altri da loro, e come sarebbe possibile il contrario? Il principio dei vasi comunicanti non trova applicazione soltanto nella fisica.
Opportunamente Milholt descrive la diffusione e le fortune dell’opera italiana in Danimarca. Alla fine del volume una serie di tavole illustrano la frequenza per periodi ma in retrospettiva (1909-1810) delle rappresentazioni alla Scala di Milano ed al San Carlo di Napoli delle opere di compositori maggiori e minori e delle opere più eseguite nella prima metà dell’800. Affascinanti titoli, su cui riflettere ed anche controbattere all’occorrenza: «Spirito del tempo e gusto», «L’ombra di Wagner», «Cattivi compositori?», «Un tesoro perduto», mentre l’autore non ignora che tanti melodrammi “remoti” sono tornati gloriosamente sulla scena, come, per quanto riguarda la Francia, i monumentali Troyens di Berlioz, alla loro epoca valutati passatisti anche rispetto al Wagner che li precedeva, sono riemersi trionfalmente negli ultimi decenni alla stregua dei grand opéra di Meyerbeer. Decisamente un volume che arricchisce gli scaffali.